Ferrara cinéphile tra allusioni e illusioni .
Massimo De Biaggi ed i suoi 23 anni.
Questa città è stata, e si spera rimarrà, un laboratorio cinematografico.
Essa, di per se, possiede una sceneggiatura latente che produce in continuità quesiti cinematografici di rottura.
Massimo De Biaggi è un giovane illustratore ferrarese di 23 anni. Diplomatosi presso la Scuola Internazionale di Comic di Padova, già collabora con soggettisti di streeps. Possiede una buona produzione grafica digitale. Ha inoltre, uno spiccato intuito interpretativo del senso estetico dell’immagine su celluloide.
Poco tempo fa gli chiesi una sua libera interpretazione del tema “Ferrara cinematografica tra allusioni ed illusioni”. La mia curiosità era motivata dal decifrare quale dilatazione generazionale poteva esserci tra le mie visioni e quelle di un giovane ferrarese, su un tema così radicato nella città di Ferrara. Il risultato è l’illustrazione che pubblico.
La sua ricerca si è delibetariamente soffermata su Visconti, Fellini, Antognoni. Un flusso continuo di “rotture” che attraverso le provocazioni create dalla sensualità di una città di provincia, scardina le catene in cui essa si imprigiona. Ferrara è solo apparentemente una città sentimentale. Ferrara in “nuce”, esprime sempre, nuovi, “giovani”, bisogni erotico intellettuali.
Mi è capitato di accompagnare il critico cinematografico Tullio Kezich, in visita privata a Ferrara, non tra i monumenti bensì nei luoghi del cinema. Lui, sceneggiatore del film “La leggenda del santo bevitore”, che aveva vinto un “Natro d’argento”, per prima cosa volle vedere la magnolia di Giorgio Bassani. Quell’intellettuale mi fece scoprire una Ferrara cinematograficamente ancora “palpabile”. Da allora sono trascorsi più di vent’anni ma il ricordo di quella visita permane, forse indelebile se ripenso al suo invito a leggere la Ferrara come città di rottura.Gliene sono tuttore grato.
Un primo “caso” è stato Luchino Visconti.
Siamo nel 1943. Luchino Visconti ha girato a Ferrara “Ossessione” , tratto dal “Postino suona sempre due volte” di Cain. Osteggiato da tutte le forze reazionarie e conservatici, appariva un film rivoluzionario e di per se scandaloso. La ragione profonda era che esso colpiva al cuore il “Sistema” in quanto denunciava e si opponeva, per la prima volta, “all’esercizio di retorica del gusto”, come scriveva il giovane critico Aristarco. Era il tentativo di un cinema realistico che denunciava la verità del quotidiano vivere. Il regime divulgava i famosi “telefoni bianchi” e Visconti proponeva una città come appariva nel quotidiano: povera, stanca e volgare. Scenografia di un dramma consumato tra le sue mura. L’Italia era in guerra e perdeva su tutti i fronti. Il giornale “Avvenire” scriveva del film:
“Come ferraresi esprimiamo il nostro disgusto nel constatare che sia stata scelta proprio la nostra città per girare un film di questo genere. ….. Una delusione è stata la mancanza qualsiasi scrocio d’ambiente, la visione delle nostre belle ed assolate strade, delle caratteristiche nostre case e palazzi, delle pur seducenti campagne, del fiume regale, di tutto quello insomma che costituisce la caratteristica di Ferrara, il suo ambiente, la sua vita sil avoro e opere, non vita di vizio, di libertinaggio, di depravazione, che per fortuna non è affatto una nostra preogativa”.
Altro caso è stato Florestano Vancini che con il suo “La lunga notte del ’43” fu il precursore di un cinema d’inchiesta di cui possiamo avere susseguenti esempi, basti pensare a Francesco Rosi. Naturalmente, il film solo in parte girato a Ferrara, in un primo momento fu censurato ai minori di 16 anni. La motivazione era nella “scabrosità” di alcune scene. La città è di nuovo palcoscenico di una sceneggiatura scritta e riscritta alla ricerca di una denuncia che non poteva non richiedere una nuova inchiesta. In una sua lettera, Vancini scrive inerentemente quest’opera ed al periodo storico in cui è ambientata:
“Siamo stati educati alle affermazioni categoriche. … E’ per questo forse che oggi amiamo il dubbio”.
Ulteriore caso è Michelangelo Antongnoni , di cui mi limiterò ad accennare solo una delle innumerevoli tematiche da lui affrontate e che hanno rivoluzionato il fare cinema. Mi rifersico ai molteplici “sguardi” attraverso i quali osservare ciò che noi riteniamo la realtà. Sono i differenti punti di osservazione dai quali scoprire ciò che non appare che rompono quell’immagine in se. Quella immagine che siamo stati educati a vedere: ciò che ci circonda solo attraverso il nostro punto di osservazione. Nascono nuovi punti di partenza che permettono nuovi percosi filmici, nuove scoperte prospettiche. E’ la denuncia di un disagio esistenziale che pone in crisi ciò che noi pensiamo di vedere, cioè di conoscere. La rottura consiste nel mettere in dubbio l’attendibilità delle nostre convinzioni mostrandole su di uno schermo piatto. Viene superata la realtà oggettiva dell’immagine per trasformarsi in opera autoriale. E pensare che tutto era partito dal suo primo documentario “Gente del Po”.
Altri autori sono passati per il territorio ferrarese: Rossellini, Fellini, Montaldo ed altri ancora a vario titolo. Sarebbe troppo lungo parlarne. Ciò dimostra il grande archivio che la città a disposizione per la creazoni di nuovi itinerari turistici alternativi.
Il turismo di massa raramente conosce o per lo meno è sensibile circa l’importanza del laboratorio cinematografico “Ferrara”, nell’ambito dell’evoluzione del cinema italiano. Ripeto, ci sarebbe molto da proporre in questo senso.
Ma, riprendendo Bernardo Bertolucci, invito tutti ad “andare avanti”, ad assumersi nuovi rischi.
Da un intervista a Bernardo Bertolucci:
“… i rischi sono che gli amici cinéphiles troveranno una mancanza di piani fissi, perché il piano fisso gli da sicurezza; delle sequenze supermontate, e allora saranno pieni di panico, perché il piano-sequenza li tranquillizza e il montaggio li terrorizza: eccetera …. altri dovrebbero ancora fare uno sforzo per vincere la paura, e scoprirebbero che il “rigore” che li ossessiona tanto, si nasconde a volte nella frivolità di una carrellata, nella sensualità di un dolly, nell’aberrazione di una sequenza doppiata.”